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Piercarlo Fabbio Sindaco di Alessandria

   
   

   

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13/12/2015

LMCA: Vincenzo Melchiorre inventa l'oreficeria

A Valenza, dopo un peregrinare di circa 15 anni per le grandi capitali, da Parigi a Firenze, a Roma, ventinovenne ritorna a Valenza e dà respiro industriale a ciò che prima era solo attività di pochi

   

LMCA: Vincenzo Melchiorre inventa l'oreficeria

Nella puntata di martedì 30 giugno de ‘La Mia Cara Alessandria’, condotta da Piercarlo Fabbio sulle frequenze di Radio Bbsi e disponibile nelle sezioni podcast sui siti www.fabbio.it e www.ritrattidall’alba.it, continua la storia di due migranti di successo: Vincenzo Melchiorre e Giuseppe Borsalino. Il primo, costruttore dell’oreficeria industriale valenzana; il secondo, maestro cappellaio che seppe vestire tutte le teste del mondo.

[Riassunto della puntata precedente: a Valenza, in pieno Ottocento, nulla fa pensare alla ‘città dell’oro’. Gli orafi muovono i primi passi e Francesco Caramora deposita il primo punzione nel 1825. Nonostante qualche isolato tentativo, bisognerà attendere l’ultimo quarto dell’Ottocento - a unità d’Italia realizzata - per vedere l’avvento di una vera e propria industria dell’oreficeria, il cui padre è stato Vincenzo Melchiorre].

E allora seguiamolo, questo irrequieto ragazzotto, prodotto di una famiglia originaria di Casalbagliano e valenzano di nascita, si era messo in testa di lavorare i metalli preziosi. È a bottega dal Morosetti, ma già a 14 anni si reca a Torino. Deve avere coraggio questo giovane nel lasciare la sua città per migliorare il poco mestiere che fin lì aveva imparato.

Nonostante la giovane età, non solo ha iniziativa, ma anche gusto con il quale riesce a realizzare oggetti di buon pregio artistico; insomma è già un ottimo artefice. A vent’anni, nel 1865, insieme ad altri, lavora a un manufatto d’oro per le nozze reali di Umberto e Margherita di Savoia.

È così orgoglioso di quanto ha realizzato che decide di trasferirsi a Parigi, città che già vanta una tradizione significativa nella moda e nell’oreficeria. Sulle rive della Senna lavora fianco a fianco di Camillo Bertuzzi, affermato orafo milanese.

Parigi però è una bolgia. Nel 1871 cade il Secondo Impero e Vincenzo ritorna in Italia. Segue le capitali: è prima a Firenze, poi a Roma. Nel 1874 sentirà un richiamo ancora più forte: quello delle radici, della consapevolezza di poter trasferire tutto il suo sapere alla sua città natale.

Ritorna a Valenza: ha 29 anni e, di fatto, un’esperienza enorme. È arrivato il momento di mettersi in proprio. I due esempi che hanno caratterizzato la Valenza dell’oreficeria sono quelli del Morosetti e del Bigatti. Sappiamo però che la loro produzione è fluttuante rispetto alla congiuntura del mercato: piccoli oggetti preziosi e bigiotteria.

Melchiorre innova decisamente il sistema produttivo: ha bisogno di professionalità, capitali e nuove tecnologie. Con lui è la moglie, Angiolina Rolandi, nipote di quel Camillo Bertuzzi che a Parigi aveva lavorato con il giovane Vincenzo.

Siamo nel 1874 e la tendenza al tesoreggiamento non è finita. La raccolta di capitali dal mercato impone tempi medio lunghi per la provvista dei volumi necessari a comperare le materie prime. Probabilmente il lungo girovagare ha consentito a Melchiorre di avere a disposizione i capitali necessari a possedere i mezzi di produzione e ad acquisire metalli aurei e pietre preziose in quantità tale da rendere fisiologico il tempo che intercorrere tra l’acquisto della materia prima e la vendita dell’oggetto lavorato.

Sceglie poi la qualità. Oro indiscutibilmente con titolo più alto e le migliori pietre preziose. Altro passaggio cardine il convincimento verso potenziali investitori a diventare finanziatori. A Valenza è finalmente nata l’oreficeria. E l’enigma enunciato nella scorsa puntata si risolve, fondando su un logico svolgimento di fatti. Anche il pubblico cambia. Melchiorre ha esperienze internazionali e conosce il gusto parigino: è artefice, ma il suo gusto innato si è affinato nella capitale europea della moda. Le sue creazioni non interesseranno solo più le signore e i signori dell’appena tramontato Regno di Sardegna, né solo quelli della nuova Italia, ma anche quelli della ricca società internazionale.

Melchiorre per Valenza è sicuramente utile a gioco lungo. Assume i migliori artigiani della città. Riesce a ottenere buoni successi e questo stimola l’autoimprenditorialità e l’imitazione. Diventa un modello.

A metà secolo le imprese valenzane sono solo 3, mentre nel 1889 già 25. Se nei primi anni del Novecento si assiste a una netta contrazione, dagli anni Dieci all’inizio della grande Guerra si staglia il periodo d’oro dell’oreficeria. Nel 1913 le aziende sono 44. È in questo momento, esattamente il 10 maggio 1912, che Vincenzo Melchiorre viene nominato dal Re Vittorio Emanuele III Cavaliere dell’ordine al merito agrario, industriale, commerciale con la seguente motivazione: “Una tendenza magnifica, fatta ad arte e di perspicacia commerciale, lo illuminò e lo condusse all'alta meta che l'oreficeria e la gioielleria italiane non potevano desiderare diversa. E ad essa il Melchiorre salì per virtù di impegno e di lavoro. Soprattutto per la profonda onestà con la quale egli impose la mirifica produzione del suo stabilimento alla simpatia di un vasto pubblico internazionale il cui diritto alla soddisfazione del lusso e del buongusto è assai sovente deluso. Maestro dell'oro raggiante e d'ogni virtuosa eleganza, la fama del Melchiorre passa dalla reggia alla piccola casa di provincia, considerata come d'uomo che oltre ad avere illustrato la città natia è stato prezioso cooperatore al buon nome dell'artistica industria dell'ornamento in Italia”.
Si vende, anche contro cambiali e a lunga scadenza. Ciò consente di dosare meglio i capitali necessari alla produzione. Migliora la distribuzione dell’energia elettrica e le nuove tecnologie possono essere meglio alimentate. Ma anche l’emigrazione dà una mano. Infatti ritornano in patria i risparmi inviati dai nostri emigranti e ciò migliora la bilancia dei pagamenti. Le banche possono scontare con saggi d’interesse migliore le cambiali e dar respiro alle industrie.

Si lavora 8 ore al giorno, finalmente. Al tempo di Bigatti se ne trascorrevano in fabbrica 12 e oltre, mentre un regolamento del 1901 fissa il massimo consentito a 9 e mezza. Ovviamente lo straordinario si pagherà con una maggiorazione oraria del 50 per cento. Di fatto i salari sono commisurati all’abilità dei singoli. I meglio pagati sono orefici e incisori, seguono incassatori e smaltatori, ancor meno sono retribuite le pulitrici.

La Guerra interromperà bruscamente questa impetuosa crescita. Gli uomini sono richiamati al fronte, ma la congiuntura è sfavorevole e neppure la loro sostituzione da parte delle donne può far molto. Peraltro proprio le donne hanno abilità fini e la riconversione delle loro professionalità nelle produzioni belliche non crea quella caduta del reddito che avrebbe potuto realizzarsi.

Ma il dopoguerra, fino agli anni Quaranta, sarà periodo da incorniciare. Ormai i meccanismi dell’oreficeria sono oliati e farli funzionare è assai meno facile che nella seconda metà dell’Ottocento. Il 1925 è funestato dalla morte di Vincenzo Melchiorre, ma ormai la strada è tracciata e - a parte un breve periodo dovuto alla depressione in Usa e alla conseguente crisi mondiale - regge e va avanti spedita con quel mix di creatività, fantasia, professionalità e organizzazione che il Melchiorre aveva sperimentato, vissuto con successo e lasciato ai posteri.

Nella rubrica ‘Reclame d’annata… però’ ‘Digestione perfetta’ e ‘Brodo Maggi’ (da ‘La Lettura’) e la ‘Società anglo romana’ (in ‘Noi e il Mondo’ del gennaio 1913).
I ‘Proverbi’ fanno riferimento al 29 giugno, dedicato ai Santi Apostoli Pietro e Paolo e giorno di marca fondamentale nel calendario contadino e delle tradizioni popolari. Molto legato al grano e alla sua mietitura il proverbio decisivo “A san Peder o tajà o da tajé” (“A San Pietro il grano o è già tagliato o pronto da tagliare”). Ma il 29 giugno segna anche un’epoca meteorologica: “San Peder a l’è l’ültim dì del frigg” (“San Pietro è l’ultimo giorno del freddo”, in pratica significa che bisogna attendere luglio per avere effettivamente il caldo). Ma San Pietro porta anche con sé una storia, quella della ‘barca ad San Peder’ che Enrico Bassignana racconta nel suo apprezzato ‘Giorni e mesi della tradizione in Piemonte’.

‘L’almanacco del giorno prima, fatti successi tanti, tanti anni fa in Alessandria’ ricorda la Commemorazione di San Paolo e la playlist musicale della settimana propone ‘La storia dei ‘Chicago’, la prima band rock con i fiati’.

 

 

 

 

 

Piercarlo Fabbio Sindaco di Alessandria