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Una delle
caratteristiche de ‘La Mia Cara Alessandria’, condotta da Piercarlo
Fabbio sulle frequenze di Radio Bbsi e disponibile nelle sezioni
podcast sui siti www.fabbio.it e
www.ritrattidall’alba.it, è quella
di andar per leggende, attraverso le quali si raccontano tanti episodi toccati a
uomini e donne, che, per forza di cose, la storia delle grandi gesta epiche
finisce sempre per escludere. Contatti ravvicinati con la cultura contadina
ricca di favole raccontate nel tepore delle stalle, ma anche di comportamenti
che si sono tramandati per secoli e che oggi o sono irrimediabilmente scomparsi
oppure si possono trovare solo parlando con i più anziani oppure ancora leggendo
in modo approfondito i testi di chi si è appassionato, fin da giovane,
all’antropologia culturale. Scienza, peraltro, abbastanza giovane: in Italia è
nata negli anni Quaranta con i primi lavori di Ernesto De Martino. Ora le
ricerche si sono estese: anche in Piemonte vi è una buona letteratura e in
Alessandria Franco Castelli ed Enrico Vigna hanno diradato
moltissimo la nebbia che stava calando sulle tradizioni rurali. Magari così
tante leggende non si sono poi trovate, ma tanti mezzucci empirici per
affrontare la vita di tutti i giorni sono diventati cose assai interessanti da
raccontare.
Esempio tipico il
rapporto fra uomini, medicamenti, malattie, superstizioni, pratiche pagane e,
perché no, magia. Non è magia, o cerca almeno di imitarla, una filastrocca che
nel Monferrato si usava per curare la tonsillite. Perché per richiamare il male
fuori dal corpo, all’applicazione di prodotti medicamentosi come i cataplasmi
(in grado di assorbire, se applicati sulla parte dolorante) occorreva il rito:
si prendeva la mano del sofferente e si segnava una serie di croci
intercalandole con questa formula: “Iin + nha dun + nha + trenna. Quare +
quarenna. Gian + bulan + bules. Ir + castagne + i + sun ++des”. Passava?
“Mia nonna - che era degli anni 90 dell’Ottocento, veniva da una famiglia
contadina e aveva un sapere autonomo in materia di medicinali - preparava
intrugli a caldo, basati su oli e riso, raccolti da un panno di cotone, che più
di una volta sono serviti a lenire non poco i miei mal di gola. Non recitava
formule, perché ormai faceva parte di una generazione cattolicissima, che alle
pratiche pseudomagiche aveva sostituito il principio che ‘el diavul u vo fiché
el corni dapertut’ (‘il diavolo vuole mettere le corna in ogni dove’), quasi un
precetto della rigida formazione religiosa che innervava la cultura delle nostre
campagne”.
Del resto per troppi secoli, specie in clima di controriforma - e in un Piemonte
di forte contrasti con le minoranze valdesi, ma non solo - queste conoscenze
erano state perseguitate come prodotti di Berlicafojòt, cioè del diavolo, perché
questo era il suo soprannome: lecca pentole. Peraltro, benché si mirasse al
diavolo, erano le donne a essere le più perseguitate; erano e ancora oggi sono
loro le vere depositarie delle conoscenze della cultura contadina. Le chiamavano
‘herbarie’, perché conoscevano le erbe officinali e molte di loro erano
anche levatrici, fino a essere vere e proprie guaritrici.
Nessun sospetto che
non sia poi la cultura cattolica – i frati nei conventi – a svolgere un ruolo
ancora oggi di guaritori attraverso le erbe: gli erboristi. Tutto si mescolava.
Nel suo ‘Il sapere dei nostri vecchi’ (Torino, 2013) lo studioso
Massimo Centini racconta come i nostri contadini intervenivano per guarire
le ferite: “Si piglia l’olio di salvia e poi si recitano sopra queste parole
segnandole con la mano: In nomine Patris, Filii et Spiritus Sancti, Amen. Et si
ritorna a segnare dicendo: In nomine Patris, Filii et Spiritus Sancti, Amen. Et
si reiterano tre volte e poi si aggiunge: quest’olio ritorni in sanità, copme
fecero verso di noi le piaghe di Gesù Cristo. Et poi si segna con una mano
(dicendo come sopra) et si unge la parte offesa et le ferite, et unta che è la
piaga si lega con una pezza di camisa portata da un maschio et non da femina et
si lega la pezza intreverso et così al contrario in forma di croce”. Del
resto l’olio di salvia ha proprietà rilassanti, depurative e cicatrizzanti; la
bendatura è utile; il resto è liturgia o placebo, ma questa volta alla magia si
sostituisce la sacralità. È come se Dio venisse umanizzato e che una parte dei
suoi poteri taumaturgici entrasse nel rapporto tra malattia e guarigione, così
come per i miracoli di Gesù.
Tutto sembra partire
da un racconto biblico ovvero da una leggenda a sfondo religioso. Era infatti
diffusa conoscenza dei nostri avi che quando Dio scaraventò sulla terra i morbi
e le malattie, creò contemporaneamente i rispettivi rimedi. Spettava agli uomini
scoprirli, “poiché si può fare senza medico; non già del medicamento. Il
quale, intendiamoci, non è la cosa che guarisce. E’ quella che – fatta ragione
dei tempi e della moda – viene per il momento ritenuta atta a guarire”, come
attesta nel 1917 Alberto Viriglio, ricercatore della cultura contadina
piemontese, che in ‘Voci e cose del vecchio Piemonte’ si occupa anche di
medicina popolare.
Materiale, ormai ridotto al lumicino, arrivato a noi o per iscritto - attraverso
i documenti, specie quelli della Chiesa – oppure grazie ai proverbi, che in
molti casi sono la traduzione dei precetti sinodali o dei concilii. Per esempio
nel sinodo del 1658 di Casale Monferrato (il Concilio di Trento voleva che ogni
anno si tenesse in ogni diocesi un sinodo), veniva dettata una regola: per
ritrovare un oggetto smarrito occorreva accendere una candela, osservarla
all’alba verso Oriente e recitare orazioni a Sant’Antonio. Una prescrizione che
nella cultura popolare si è tradotta in una formula-proverbio conosciuta più o
meno in questi termini: “Sant’Antoni pen ad virtù, fam truve cul ch’ha jo perdù”
(“Sant’Antonio, pieno di virtù, fammi ritrovare ciò che ho perduto”).
Importante anche il
Sinodo di Alessandria del 1605 che impediva o riduceva drasticamente le
‘messe secche’ officiate - ad esempio - per le gestanti, gli ammalati e i
morti, oppure per funerali e matrimoni celebrati al pomeriggio in cui non
avveniva l’offertorio, la consacrazione e la comunione; una sorta di rito che
oggi definiamo ‘liturgia della parola’. Ancor più interessante un atto
sinodale alessandrino del 1606 il quale raccomandava che le aste del cero
pasquale (piuttosto abituali per raccogliere denari da destinare alle necessità
ecclesiali) avvenissero fuori dalla chiesa, in quanto pratica religiosa
considerata al limite del consentito. Il ricavato doveva però ritornare
all’interno dell’edificio nell’apposita cassetta per le offerte.
Temi interessanti per il cammino nella storia degli uomini e dei loro usi, riti,
tradizioni e radici culturali che certamente verranno ulteriormente
approfonditi.
In questa puntata la
rubrica ‘Reclame d’annata’ propone i panettoni della ‘D. Boratto’. Per
‘Stra per stra’, sosta a Spinetta Marengo in piazza Giovanni Maino
(ex ‘delle Scuole’). Nato ad Alessandria nel 1872, appassionato ciclista, nel
1896 fonda la fabbrica ‘Maino & Marengo’ che occupa circa cento dipendenti. Il
‘Campionissimo’ Costante Girardengo e la ‘Locomotiva umana’ Learco
Guerra corrono per la sua casa. Una grande scritta campeggia sui tetti di
piazza Garibaldi, mentre la nuova fabbrica sorgerà nel quartiere Pista, in via
Galilei. Dopo ogni vittoria Maino faceva esporre la ‘macchina’ vincitrice nelle
vetrine del suo negozio. I suoi prodotti, pubblicizzati per leggerezza e
scorrevolezza, vengono esportati in molti Paesi del mondo. Il colore delle
maglie dei suoi corridori era grigio ed è probabile che sia stato lui a donare
la prima maglia dell’Alessandria Calcio. Il suo marchio è stato
acquistato dalla ‘Rizzato-Atala’.
‘L’almanacco del giorno prima, fatti successi tanti, tanti anni fa in
Alessandria’ racconta di sant’Ivone, prete avvocato dei poveri e la playlist
musicale della settimana è dedicata a Brian Auger.
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