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Mercoledì 25 dicembre 2024

Piercarlo Fabbio Sindaco di Alessandria

   
   

   

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04/10/2003

La fine della DC: padroni di una grande storia

Intervento di Piercarlo Fabbio al Convegno "Ripristiniamo la verità" - Giornata dell'orgoglio democristiano. Il convegno ospitato al Santuario di Crea.

   

Care amiche, cari amici, la storia è normalmente scritta dai vincitori. Per poterla riscrivere ci vogliono sudori e studi e contesti politici favorevoli. Per cui appare utopico il tema che Pierpaolo Gherlone ci ha dettato. Oggi, forse, non ci tocca il tempo della verità. Oggi, forse, è un'altra la nostra missione: testimoniare l'esperienza, affinché qualcuno - a cui sarà affidato il tempo e l'uso della verità, per fortuna - possa scrivere, con i nostri materiali, la storia della fine della DC, garantendo il rispetto dei fatti, la rimozione delle menzogne, la messa a latere delle falsità. Ricordare quindi, ma soprattutto organizzare il ricordo astenendosi dal giudizio, come fanno i filosofi, enumerando i materiali della memoria, fotografando le azioni dei protagonisti, portando alla luce anche i più misconosciuti atti delle propaggini locali della balena bianca, in una sorta di autointervista che servirà più al domani che al presente. Vi propongo dunque un momento deludente, minimalista, insoddisfacente e deteriore? Penso di no. Tutt'altro. Oggi vi segnalo la possibilità di condurre un'impresa formidabile: essere ancora padroni della vostra storia, senza che nessuno, quasi inconsapevole della sua importanza, la contrabbandi per mai vissuta, mai trascorsa, mai applicata alla società italiana e alle comunità locali. Senza che nessuno possa domani, per nostra mera insipienza, condannarci alla damnatio memoriae: presentare la storia della nostra nazione nel secolo scorso come la somma di due buchi neri, quello del ventennio fascista e quello del quarantennio democristiano, magari solo riconoscendo che il secondo si sarebbe contrapposto - neppure troppo sfacciatamente - al primo, peraltro esercitando l'immane errore di comparare una dittatura con una democrazia, che ha garantito libertà sempre crescente all'Italia ed un respiro incessante verso la pace e l'unione europea. Salvare la nostra memoria, dunque, non alimentare la nostalgia, naturale ma ingiusta ed inutile, che in alcuni di noi potrebbe albergare, più per melanconia che per razionalità. Perché la memoria è talmente importante, ed è talmente faticoso giungere ad appuntamenti come quello odierno passando attraverso il timore dello scherno, dell'autocommiserazione, dell'ironia strisciante, che sprecare un'occasione del genere sarebbe il secondo delitto che ci passa per le mani senza che lo comprendiamo come tale e senza che facciamo qualcosa per fermare gli eventi. Perché il primo lo abbiamo condotto, coatori ignari per molti versi, il 25 luglio del 1993, quando sotto alla grande M di mussoliniana memoria, ma di certezza martinazzoliana, che campeggiava sul palco del Palacongressi all'EUR, vedevamo i nostri amici della sinistra democristiana stringere i pugni in segno di vittoria per marcare un traguardo agognato e raggiunto: la fine della Democrazia Cristiana. Peccato, anche per loro, che la prospettiva era assai più debole del percorso tralasciato. Peccato che quella pericolosa deriva verso la sinistra dello schieramento politico nazionale diventasse un vero e proprio approdo e negasse, nel contempo la nostra collocazione di partito di centro, interclassista, pluralista di forte ed inequivocabile ispirazione cattolica. Lasciavamo, in allora, che sulle ceneri della DC nascesse - purtroppo senza l'apporto di molti noi (alcuni abbarbicati al vascello rimasto senza vele, altri abbandonati su piccole zattere alla ricerca di un attracco con improbabili transatlantici dalle magnifiche sorti e progressive) - un'area libera da occupare con contenitori politici che, necessariamente, per genesi, non avrebbero più potuto avere le caratteristiche etiche, di forza, di distacco dagli interessi che avevano contraddistinto fino ad allora il cammino condiviso di un partito che coglieva con sapienza le esigenze differenziate e composite dei moderati italiani e il loro bisogno di democrazia. È brutto navigare tra gli scogli durante la tempesta. Si corre il rischio di occuparsi più degli scogli che della tempesta. E così hanno fatto i molti che non hanno immediatamente differenziato il loro percorso: si sono occupati degli episodi e non hanno fatto caso alle prospettive. E sono stati travolti dalla procella, dalla burrasca. Se questo è il finale, che tutti conoscono, che tutti ricordano, cosa succedeva immediatamente prima? La DC veniva uccisa da alcuni cospiratori interni, dall'impatto insostenibile con tangentopoli, dalle leggi sul sistema elettorale che ne smembravano l'implicita organizzazione oppure ancora dalla sua inadeguatezza storica? Ovvero da tutte queste cose insieme? Nel rispondere oggi a queste domande, vi chiedo, ancora una volta di imbracciare la memoria e di non farvi traviare dalla nostalgia. Vi chiedo, se è possibile, di non farvi trascinare dal pre-giudizio che sia stata fatta un'azione balorda ed inutile. Perché la storia ha l'abitudine di dire ciò che è stato, mentre gli uomini, invece, non si vogliono sottrarre alla tentazione di giudicare. Per cui avere un pregiudizio significa raccontare i fatti sotto condizione. È possibile riconoscere che il progetto politico della DC di fine anni Ottanta, inizio anni Novanta si fosse affievolito? Penso di sì. Umanamente è impossibile detenere, in assenza di alternanza, il Governo per un periodo di tempo così lungo, senza specializzarsi troppo in quell'attività. Mi spiego: la DC era ormai vissuta come il partito del Governo e quindi del potere. Non riusciva più a parlare alla gente delle cose che la gente viveva sulla propria pelle. Non riusciva a volgarizzare la sua azione. Era divenuta l'astrazione di un progetto politico, non lo strumento per realizzarlo. "Ci sono più cose in cielo e sulla terra che nella tua filosofia, Orazio", dice Amleto, riconoscendo il primato della realtà su quello delle idee. Al di là del contrasto irrisolto che ci rincorre dall'antichità fra Aristotelici e platonici, tra mondo del sensibile e mondo delle idee, possiamo, quasi per battuta, dire che la DC era progressivamente diventata unica depositaria di se stessa. La si poteva vivere, capire, interpretare solo dal suo interno. Il progressivo distacco dalla realtà del Paese, pur essendo realtà nel Paese, non giovò alla sua politica di permanenza nel sistema politico nazionale. L'occupazione di molti gangli della società da parte di un sistema di partiti da sempre competitore, per definizione, dello Stato (un partito è agente di democratizzazione e di cambiamento, uno stato è agente di stabilizzazione, di conservazione) divenne impossibile da sostenere anche da parte di chi doveva giovarsi dei frutti di questa esondazione istituzionale. Nella lotta costante tra i partiti (la nazione?) e lo Stato si viene a creare una faglia mobile, un diaframma, un compromesso. Se i partiti lo superano diventano essi stessi Stato, cioè il loro potenziale nemico. Se lo supera lo Stato, diventa dispotismo. La dimostrazione di questo allontanamento dalle cose che tutti conoscono sta negli strumenti inventati per succedere a se stessi: alcuni di noi pensarono alla immissione nel sistema elettorale della preferenza unica, che squassò dalle fondamenta il pluralismo organizzativo interno. Aveva retto magnificamente per tanti decenni. Anzi che era stato un sistema di anticorpi contro la deflagrazione interiore e contro il progredire di tensioni e conflitti, abituando piuttosto quadri e dirigenti alla prassi della mediazione fra tendenze dissimili e contrarie. Imponendo condizioni di democrazia, di riconoscimento delle parti interne a coloro che intendessero permanere nel partito. Probabilmente le correnti, che ne sono il risultato, corrispondono ancora ad una questione diversa e comunque opinabile. Qualche mese fa, nell'aprile 2003, Mariotto Segni ha voluto celebrare il decennale del referendum sul maggioritario che dieci anni fa obbligò il parlamento a mutare la legge elettorale. In profondo cosa ne sapessero i cittadini elettori della differenza fra il proporzionale ed il maggioritario è un mistero che ancora adesso cerco di districare. Eppure si impose una visione maggioritaria del sistema elettorale. E lì mancò il coraggio di rispettare fino in fondo la scelta: Sergio Mattarella propose ed impose un testo che volgeva verso un sistema misto, in cui il proporzionale manteneva una nicchia importante numericamente, ma inutile politicamente. In più il mattarellum premiava esageratamente le estreme: si vince alleandosi con Rifondazione o con la Lega e, ovviamente, oltre a radicalizzare l'intera proposta politica, si deve remunerare il valore marginale dell'alleato, tanto diverso quanto indispensabile. Infine un partito grande e pesante organizzativamente come la DC non si adatta in un baleno al rapido mutare delle condizioni che sono la conseguenza della sua azione, ma che servono anche alla scelta della sua classe dirigente collocabile nelle istituzioni. Comunque non abbiamo oggi neppure la controprova che ciò sia stato possibile, in quanto la DC non resse alle prime elezioni che si basavano su questo sistema. I democristiani avevano (furono costretti?) votato in parlamento il sistema con il quale volevano morire. Ed in ciò furono preveggenti. La storia delle grandi invenzioni ci insegna, però, che nessuna intuizione folgorante può avvenire se il contesto non è in grado di accoglierla. Leonardo da Vinci è il genio di questa necessità. Tangentopoli è il contesto di base ove si compie il dramma di un sistema politico, una rivoluzione che risparmia chi l'aveva ispirata, pensata, provata (si ricordi il caso Tortora). Così coloro che nel 1989 sono gli sconfitti dalla storia vengono, da lì a qualche anno, riabilitati dalla cronaca. I nostri dirigenti sono sommariamente processati dall'ordalia giustizialista nella quale i popoli ogni tanto cadono, solleticati nei loro istinti più irrazionali e barbari. Sono mafiosi, corrotti, ladri, mandanti di feroci assassini, ispiratori di stragi di stato. Si processa la storia. Si deve riscrivere la storia che ha sconfitto il PCI. È una storia cattiva e come tale deve essere spiegata alle masse in attesa dell'educazione gramsciana che gli derivi dall'alto. E la dimostrazione si ha nello scoprire che socialisti e democristiani, democratici competitori dei comunisti, regolarmente legittimati dal consenso popolare, diventano un nugolo di delinquenti che, chissà per quale illegale metodo, hanno detenuto il potere, senza che i buoni, cioè gli sconfitti dalla storia, potessero prevalere. C'è qualcosa di illogico che travaglia questo ragionamento. C'è qualcosa che sfugge: possiamo pure convenire che la DC, perso il suo competitore di riferimento, possa aver smarrito una buona ragione per permanere nel sistema politico italiano, ma che quest'ultimo risulti, di lì a poco, come vincitore, lo posso spiegare solo con un intervento esterno. Un po' come la nebbia omerica che, sul campo di battaglia, sottrae lo sconfitto al vincitore per evitare che ne faccia scempio e lo fa riapparire quando ha recuperato le forze. Ma la dimostrazione che il PCI-PDS non fosse una gioiosa macchina da guerra in grado di sconfiggere una DC che non avesse perso i suoi riferimenti con la società la danno proprio le elezioni del 1994, quando un outsider come Silvio Berlusconi conquista in un colpo lo spazio che tradizionalmente era detenuto dai partiti di governo, di fatto usufruendo di una sola categoria vincente: quella del nuovo, della novità, del cambiamento. Ecco, molte delle ragioni di una scomparsa stanno in quest'altra antinomia: la lotta tra cambiamento e persistenza. Peraltro alcuni potranno pure legittimamente sostenere che la DC fu falciata in mezzo al guado, mentre appunto stava apprestandosi a cambiare. Immagino qui solo un'ipotesi: ma un partito che era diventato gestione del potere, esso stesso potere, doveva premunirsi di cambiare prima dei propri strumenti normativi ed elettorali? Oppure il cambiamento era comunque impossibile per la sclerotizzazione delle forme organizzative e per le abitudini dei comportamenti. Oppure ancora era solo il tipo di cambiamento ad essere mal orientato? Sono domande che offro al dibattito e a cui mi pare troppo complicato, a questo punto rispondere. Mi accontento di una storia… La Basilica di Cluny, seconda in Europa solo a San Pietro, venne smembrata pezzo a pezzo, con tale volontà di strazio che perfino Napoleone, di passaggio da quelle parti, ebbe a lamentarsene con i cittadini, rei di aver svenduto a mercanti di materiali edili un così imponente monumento a Dio. Neppure i Giacobini erano arrivati a tanto! I brani della basilica si dispersero quindi in mille altri manufatti, abitazioni, costruzioni di foggia ed uso ben diversi dall'originale. Certamente con una destinazione meno nobile di quella pensata nel 910 dal duca Guglielmo di Aquitania che, per garantirsi un buon trattamento nell'aldilà, aveva avuto la buona idea di regalare alla Chiesa un appezzamento di terreno e una certa dotazione di risorse per la costruzione della basilica. Oggi però, Cluny è area archeologica e neppure il disprezzo di Napoleone ha potuto fermare lo scempio del recupero dei materiali edilizi a fini alternativi. E dire che le comunità di riferimento dell'area cluniacense, sempre richiedettero quattrini alle superiori autorità per effettuare la manutenzione della grande opera, senza trovarne. E quindi si decisero a venderla nel 1795, in pieno Termidoro. Così i ruderi oggi campeggiano per turisti, studiosi e qualche pellegrino. Ma sempre resti sono, che non servono per l'omaggio a Dio. Distrutta una tradizione, pur grande e maestosa, la memoria (che è spinta esperientiva alla costruzione del futuro) lascia il passo alla nostalgia (che è, invece, una fioca illuminazione su un evento avvenuto, ma definitivamente trascorso e non riproponibile). Noi dobbiamo essere simili a quei mattoni riutilizzati per costruire altre abitazioni; viviamo insieme ad altri, ma portiamo i nostri valori. Cerchiamo di amalgamarli con altre tradizioni e di rispettarli, magari di interconnetterli con altri mattoni che giungono dalla stessa antica ed imponente costruzione. Per ora la memoria, in attesa del tempo della verità, non ci offre altri tipi di speranza e da questo punto di vista l'intuizione di Pier Paolo Gherlone, da utopica diventa perseguibile e praticabile. Ringraziare il suo coraggio e la sua razionalità penso che oggi sia poca cosa…

 

 

 

 

 

Piercarlo Fabbio Sindaco di Alessandria