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Piercarlo Fabbio Sindaco di Alessandria

   
   

   

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25/04/2011

La Liberazione, secondo atto del Risorgimento

Piercarlo Fabbio porta un saluto alla manifestazione del 25 aprile a Spinetta Marengo invitato da Carlo Lombardi e mette in correlazione la Resistenza con i moti ottocenteschi e il problema della forma di Governo. Perché Salò trasforma una guerra contro l'oppressore nella carogna della guerra civile.

   

La Liberazione, secondo atto del Risorgimento

25 aprile 2011 – Spinetta Marengo – piazzale Scuole via del Ferraio

Ringrazio per l’invito Carlo Lombardi e gli amici dell'ANPI di Spinetta Marengo.

So che molti Sindaci hanno disertato Spinetta forse intendendolo un teatro secondario. Non è mio costume riservare il meglio per la sala maggiore e riposare l’intelletto per le tavole più modeste dei palcoscenici nominalmente meno importanti.
Non è stata questa la lezione tramandataci da Bruno Prati, Dorino Raimondi, Angelo Raineri, Aldo Diani, Achille Perfumo, Aliprandi Magnano, Prospero Gozzo e magari Giuseppe Goggi, carabiniere, partigiano della Divisione Matteotti-Marengo, che hanno immolato la loro vita in diverse parti d’Europa a Borgo San Dalmazzo come a Bobi Don in Jugoslavia o a Vernate.
Non hanno scelto, esattamente come altri - il 3 marzo, il 28 aprile 45 qui intorno a Spinetta - con le loro azioni, il gesto reboante e clamoroso, ma ciò che serviva, anche se disarmare una cinquantina di nazisti non avrebbe fatto assurgere agli onori delle cronache, né alla storia, ma avrebbe aiutato il movimento a favorire il raggiungimento della libertà.
Molti hanno pagato con la vita il loro eroismo a pochi istanti dalla fine della guerra, come Raimondo Dorino, ovvero se non dopo che questa era già finita come nel caso di Prospero Gozzo, fucilato ai primi di maggio. Probabilmente hanno accelerato con il loro sacrificio i tempi del conflitto e il suo termine e hanno fatto crescere una diffusa coscienza di libertà nelle popolazioni.
La Resistenza quindi da intendersi come esempio di formazione alla libertà di un popolo e di educazione al pluralismo delle idee per coloro che da tempo erano abituati al pensiero unico del regime.
Noi abbiamo il dovere di rendere loro omaggio
C’è un’altra ragione: lo scorso anno parlai dell’apporto di Alessandria alla Resistenza e alla Liberazione, non solo degli eroi e dei martiri, dei partigiani e dei combattenti, ma anche dei cittadini comuni, che,ad esempio, mentre si svolgevano le trattative per la resa dei tedeschi nella sacrestia del Duomo, premevano sulle porte della Cattedrale per andare a pregare la Salve affinché favorisse con la sua intercessione la pace. Erano gli stessi che avevano stoicamente subito i bombardamenti degli alleati sulla nostra città.
C’è un ulteriore problema. Da tempo non esponiamo più i fatti della Resistenza, gli episodi di un periodo nodale della nostra storia. Non raccontiamo più gli eventi perché li riteniamo conosciuti. Come se la storia dovesse essere murata viva.
Eppure come farebbe bene alla verità raccogliere ancora voci, informazioni, testimonianze, approfondimenti. Come farebbe bene alla verità aggiungere informazioni, conoscenza, smontare miti, individuare nuovi eroismi, differenti campi d’indagine, magari recuperando, ancor più di come finora si è fatto, la storia delle persone, le loro credenze, il loro modo di reagire alle sollecitazioni belliche, la loro umanità, il loro percorso di formazione politica o religiosa.
In così tanti anni, anziché usare il grandangolo sulla storia di un periodo tanto travagliato, quanto centrale per la nostra Nazione, si è finito per consolidare il mito, quando non la leggenda.
Ne è conseguita una specie di allontanamento dal 25 aprile della maggioranza degli italiani.
In Italia la “liberazione” tende, sempre più, ad essere considerata una festa di alcuni, ma non di tutti. Festa che dovrebbe essere data fondativa della nostra Repubblica e della nostra Democrazia e che, invece viene vezzeggiata amorevolmente da alcuni e tranquillamente snobbata da altri. E, al massimo, molti finiscono per considerarla essenzialmente la data simbolo di partenza del nostro sistema politico democratico.
Un vero deficit di identità, che affonda le radici nel Risorgimento imperfetto, intendendo quest’ultimo come un episodio condotto da un’elite di intellettuali, di nobili e di politici, ma non concluso pienamente, interrotto dalla dittatura fascista, mentre la Resistenza è più incline ad essere realmente considerata un grande afflato partecipativo degli operai e dei contadini, delle popolazioni civili, degli studenti e dei militari alla ri-formazione di uno Stato unitario, cancellato dalla sconfitta della guerra e straziato dall’armistizio dell’8 settembre.
Il Risorgimento non è però una cartolina seppiata da mostrare ai più giovani proprio mentre si celebrano i 150 anni dell’Unità del Paese. E’ invece un percorso che va preso, scandito, marcato, sezionato e interpretato in tutte le sue componenti. Quelle intellettuali e quelle popolari.
Forse è definendo questa vicenda che si può capire la Resistenza come potenziale secondo tempo del Risorgimento. Non come sua conseguenza diretta, meccanica, fisiologica.
Proprio la nostra città e i suoi eroi risorgimentali aiutano a comprendere questo ragionamento: cosa volevano i Santorre di Santarosa, gli Ansaldi, i Dossena, gli Urbano Rattazzi, l’Andrea Vochieri e i tanti altri che si alternarono tra il 1821 e il 1833 e che finirono i loro giorni in esilio o davanti ai plotoni di esecuzione?
Solamente la libertà o l’unità della Nazione oppure miravano alla sovversione dell’ordine costituito? Più ad Alessandria che da altre parti si invocò la Costituzione (la si proclamò per pochi istanti nel marzo 1821) e si inneggiò alla Repubblica, attraverso gli scritti mazziniani della Giovane Italia, il cui possesso fu causa del martirio del causidico Vochieri. Ci chiediamo perché da noi, e non a Chambery, a Torino, a Genova, la repressione fu così dura e inemendabile? Semplicemente perché si era realizzata in città un’identità intellettuale che avrebbe potuto generare grave nocumento al Regno e i cui semi non andavano fatti germogliare tra la popolazione.
Il movimento di popolo risorgimentale, normalmente presente nella composizione degli eserciti di Giuseppe Garibaldi, venne orientato verso il mantenimento dell’ordine costituito, ma indirizzato verso i valori dell’unità della Nazione da troppo tempo a brandelli e governata da occupanti innaturali. Fu il grimaldello per poter mettere a disposizione alcune delle idee dei nostri intellettuali verso un movimento di popolo che doveva dar la spinta alla formazione di un’Italia unita.
Il codice era così rigoroso che proprio nel 1849 il nostro Consiglio Comunale eletto per voto segreto dagli elettori che ne avevano titolo, venne sciolto dal Re, Vittorio Emanuele II, per manifesta simpatia nei confronti dei moti di Genova. E il Sindaco, Carlo Parvopassu, dichiarato decaduto. La sfera era tracciata e non era quella della forma di governo. Non ci fece fare grandi passi in avanti su questo versante la prima Guerra Mondiale. Centinaia di migliaia di morti per preservare i confini e per salvaguardare il risultato delle guerre d’indipendenza ottocentesche, ma nessun passo in avanti.
E si deve proprio giungere all’8 settembre 1943 per rimettere in gioco il problema della forma di governo, quella Repubblica richiesta a gran voce dai seguaci di Santorre di Santarosa, dagli studenti torinesi in una fase di crisi del governo sabaudo, che si sarebbe poi risolta a favore dei vertici del Regno di Sardegna.
Dall’ 8 settembre in avanti appare chiaro che il secondo scoglio del pensiero innovatore dei nostri padri poteva essere rimesso a disposizione della comunità, come se il popolo avesse avuto a disposizione ciò che gli era stato sottratto a metà dell’Ottocento.
Da questo punto di vista intendere la Resistenza come un tassello ben collocato del processo di unità che quest’anno celebriamo è assolutamente possibile.
Certo che una complicazione avviene, nel momento che a confliggere, in quei giorni, in quei 20 mesi, vi sono da una parte coloro che scelgono di combattere il nemico della prima ora e dall’altra chi, invece, rimane nella società e si oppone contro il regime di occupazione nazista e contro la Repubblica Sociale Italiana. L’atteggiamento comune è però costituito “anzitutto da una ribellione morale, la scelta consapevole dell’umano contro il disumano” (Giovanni Barbareschi), perché si capisce fin da subito che il vulnus più forte al sentimento nazionale è la nascita della Repubblica Sociale. Senza Salò la Resistenza sarebbe stata inequivocabilmente lotta di liberazione dall’occupazione straniera, naturale ulteriore tappa del Risorgimento, una sollevazione contro l’oppressore, una rivolta patriottica. Con Salò calca la scena la guerra civile, la carogna dell’odio fratricida, che oscura le dimensioni del bene e del male. Con Salò si crea una “lacerazione interna al popolo italiano, con il suo seguito di sanguinose contrapposizioni, i cui effetti si sono sentiti per decenni e che ancora oggi perdurano” (Renzo De Felice) e tuttora si fa così fatica a superarle.
Allora è questo il problema, i custodi della vulgata resistenziale devono decidere di lasciar cadere il loro approccio ideologico alla storia. Devono aprire menti e studi ad una memoria più diffusa e condivisa. Altrimenti ognuno andrà per proprio conto come già succede oggi – a 66 anni di distanza - e rischia ancor più di succedere domani.
La pena per questo percorso è l’autoconsunzione del 25 aprile nella memoria di un popolo.
In questi anni il progressivo distacco dei testimoni del tempo dalle avversità del loro tempo ha fatto ritenere che ciò bastasse per ricollocare gli eventi in una dimensione più veritiera, forse più asettica, meno leggendaria. Non è stato così: le divisioni interne alla Resistenza, quel sapore di pluralismo che si iniziava a gustare è diventato una categoria immutabile di appartenenze che rischia di produrre ancora danni. Non ci fa fare un passo in avanti sul terreno della storia… anzi, ci fa regredire al punto che l’attualità viene utilizzata come se fosse la storia e la storia usata come una clava su coloro che ne tentano riletture, peraltro possibili, consentibili e favoribile sul piano della necessità di chiarezza che sopra richiamavo.
Così le mille sfaccettature della Resistenza devono essere recuperate nei due cardini essenziali che l’hanno sostenuta: la Resistenza Carità e la Resistenza Rivoluzione, sapendo che in quest’ultima leggiamo il segno della continuità risorgimentale, mentre nella prima sottolineiamo la solidarietà e l’umana pietas di un popolo che tale si era ormai fatto anche per questo sentimento.
E quella dichiarazione di Massimo D’Azeglio: “fatta l’Italia, bisogna fare gli italiani”, probabilmente trova concreta attuazione nella lotta per la Liberazione, nei suoi mille aspetti, nelle sue contraddizioni da scandagliare e da non sottacere, nelle questioni da portare alla luce fuori dal rispetto del “politicamente corretto”, sapendo che una storia condivisa porta più facilmente alla pacificazione, pur nella diversità – che è ricchezza – delle posizioni in campo. Guai a chi pensi che il prodotto Resistenza è uno standard da proporre ogni anno, senza il minimo arricchimento, senza il più piccolo approfondimento.
Essere coloro che hanno fatto partire le lancette dell’orologio risorgimentale ci obbligava a responsabilità grandi e quel 25 aprile 1945, gli alessandrini riconobbero, nei volti dei partigiani e degli alleati, le sembianze dei loro avi che ritornavano a sorridere pienamente alla storia e al trionfo delle loro idee.
Viva il 25 aprile, viva Alessandria, viva l’Italia

Piercarlo Fabbio
Sindaco di Alessandria

 

 

 

 

 

Piercarlo Fabbio Sindaco di Alessandria