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Piercarlo Fabbio Sindaco di Alessandria

   
   

   

Ricerca avanzata

07/02/2010

Una nuova politica industriale per Alessandria

Intervento del Sindaco all'interno del Piano Strategico di Sviluppo: internazionalizzazione, ricerca applicata, formazione di alto livello e progettualità di nuovi strumenti finanziari. Ecco l'intervento integrale

   

Una nuova politica industriale per Alessandria

Intervento al Convegno “Piano Strategico di Alessandria: quattro linee progettuali di politica industriale” – 29 gennaio 2010

 

Innanzitutto occorre evitare di fare un errore di parallasse tra noi e voi. Noi abbiamo visioni diverse della città, ma non perché abbiamo convincimenti differenti. Noi vediamo la città in sfere completamente divergenti. C’è un dichiarato errore di parallasse tra gli amministratori pubblici e il resto dei cittadini; minore in coloro che sono più vicini, per effetto di una serie di processi cognitivi, maggiore per coloro che si pasciono di informazioni che vengono intermediate dai mezzi di comunicazione sociale o addirittura non ricevono messaggi da media istituzionali.
Ci sono tre rami a cui fare riferimento:
1) ciò che noi vediamo con i nostri occhi, qualcosa che è già stato trasformato, ovvero non appare già ora come appariva qualche anno fa;
2) ciò che è nelle decisioni già assunte, ma non è ancora visivamente apprezzabile, e che però è ormai fuori dall’ambito di valutazione dell’amministrazione pubblica. Ad esempio l’operazione della caserma Valfrè. A livello decisionale e non realizzativo, per noi è una cosa ormai passata, dobbiamo solo cominciare a comunicare come potrà avvenire. Essa è tendenzialmente semplice: il Comune di Alessandria con delibera del Consiglio Comunale del novembre 2009, ha deciso di esercitare l’opzione di acquisto della caserma Valfrè; 55.000 m2 e circa 4500 m2 di superficie calpestabile lorda per ogni caserma del blocco centrale (senza far riferimento ad altro). Contestualmente, il Comune, aveva già fatto partire, per effetto di un protocollo d’intesa direttamente con l’agenzia del demanio del febbraio 2008, un percorso di variante di destinazione d’uso della caserma. Nei nostri documenti pianificatori le caserme sono dei veri e propri buchi neri, cioè non sono destinate a nulla se non per quello che erano (non solo occultate alla vista dei concittadini, ma anche a quella dei documenti formali). Si trattava di indicare la nuova destinazione d’uso: un terzo è destinato ad area residenziale e commerciale, un terzo è per servizi, un terzo è area verde. L’obiettivo che noi perseguiremo, in termini realizzativi, è quello di destinare una palazzina della caserma Valfrè, all’Università, di trovare fra i fabbricati di bassa altezza uno spazio per la mensa universitaria, e quindi di risistemare completamente un’area che va dai margini del palazzo agorà, fino al centro della piazza interna, in modo da collocarvi il campus dell’Ateneo. Se Giurisprudenza sarà d’accordo, non essendo più disponibile ad operare, in termini di recupero, sull’ex ospedale militare – questo ci è stato comunicato dal professor Garbarino – tenteremmo una permuta dell’attuale costruzione che contiene Esselunga, per poterla mettere a disposizione della Facoltà. A questo punto si creerebbe un fronte molto ampio di costruito e di verde per la realizzazione di una porta della città sull’Università. A ciò dovete aggiungere la risistemazione viaria complessiva dei due assi di Corso 100 Cannoni e degli spalti, nonché la soppressione di via Montebello per trasformarla in percorso pedonale e ciclabile in mezzo al verde.
Questa decisione, che di fatto è sancita dal sistema pubblico locale, molti non hanno ancora potuto verificarla, e quindi fa parte di tale seconda sfera.
3) Infine ciò che è nelle nostre menti come idea di sviluppo della nostra città. Questa è una sfera su cui l’amministratore pubblico perspicace riesce a lavorare meglio, perché è quella del sistema programmatico che si trasforma in un sistema di idee praticabili e realizzabili, e che viene in qualche modo messo a disposizione della resistenza realizzativa, cioè la prova di quanto questa idea può essere o no realizzata in pratica.
Questo è il lavoro che noi facciamo di più, o che il sottoscritto fa di più rispetto agli altri perché ha la responsabilità di dovere offrire una nuova visione di città a tutti i concittadini.
Le differenze quindi, non sono cosi facilmente sanabili. Il piano strategico di sviluppo tiene conto di questi elementi, cerca di tenerli assieme, di creare condizioni di forte condivisione delle idee, di arricchire il patrimonio ideale di un primo cittadino che ha il compito di far avverare la città del futuro.
Se poi ci spostiamo sui temi della politica industriale per Alessandria, allora occorre tenere conto come diventa difficile essere determinanti se non si sfruttano particolari ambiti di intervento. Chi se ne deve occupare non è il Governo, non è l’Europa, non è la Regione, è il Comune che ha risorse tendenzialmente limitate e che ha sofferto anche più di altri le conseguenze della crisi, ma è ente che ha deve proporre idee puntuali, al fine di non rischiare di essere dispersivo e irrealizzativo.
Sul versante della politica industriale per Alessandria, dunque, abbiamo pescato dal nostro programma elettorale che si è trasformato in programma di mandato, ma solo dopo essere stato confrontato con gli stakeholder, e riscritto in alcune sue parti.
Ritengo che il programma elettorale e il programma di mandato siano due cose molto distinte, e che si debba fare un trattamento intermedio per correlare il programma a risorse e a disponibilità.
Già nel programma elettorale abbiamo iniziato a parlare di politiche industriali per Alessandria. Una delle cose che in allora apparivano più nuove, e che oggi devono essere meglio declinate e coniugate, era quella dell’internazionalizzazione di impresa.
Oggi siamo riuniti formalmente attorno al tavolo di lavoro del settore produttivo del Piano Strategico della Città di Alessandria, non per discutere della politica industriale generale, ma di quella per la nostra città. Il tavolo di lavoro ha scelto quattro linee strategiche, che rapidamente indico.
Intanto, noi affermiamo, in linea con autorevoli economisti, che si produca ricchezza con un tasso di crescita sensibilmente superiore nelle economie aperte, rispetto alle economie chiuse. Io qui mi schiero contro il Tremonti 1, perché il bis è già più su questa linea. Alcuni paesi che hanno saputo, negli scorsi decenni, aprirsi al mercato internazionale - la Cina ne è esempio emblematico -, hanno conosciuto tassi di sviluppo e di miglioramento economico e sociale senza precedenti. La Cina ha un’economia che tende ad aprirsi, a trovare sempre più partner e a evitare di utilizzare quello che è il suo grande serbatoio, il mercato interno. Certo, ci sono dei dumping all’interno della politica economica cinese, come quelli monetario, ambientale o del costo del lavoro, ma ciò significa ulteriormente che tutto il sistema tende ad essere il più aperto possibile. Per converso, le politiche di chiusura, di dazi e protezioni, confinano tristemente i paesi che li adottano, al rango di paesi del terzo mondo, come purtroppo molte esperienze dimostrano.
La globalizzazione è un fatto, e l’Unione Europea ne è un altro. Peraltro, in questa visione, io ritengo il mercato europeo un mercato interno, non un mercato esterno da aggredire. Quindi dobbiamo andare al di fuori delle aree europee.
Poiché le nostre imprese devono operare all’interno di queste due realtà, si deve riconoscere che internazionalizzazione significa andare al di fuori delle aree europee.
Secondariamente, studi effettuati anche sul nostro territorio locale, hanno dimostrato in passato che l’approccio passa attraverso alcuni stadi tecnicamente identificabili: studio del mercato estero, prime esperienze di sondaggio commerciale non permanente (fiere, show room, ecc.), penetrazione commerciale durevole di mercati esteri (caratterizzata dalla stabile presenza dei due elementi del lavoro in loco e di una sede operativa nel paese di destinazione), radicamento industriale, tema un po’ delicato, e delocalizzazione dei nuovi insediamenti industriali, per giungere alla internazionalizzazione finanziaria che forse esula dai nostri confini di indagine.
Questo è il quarto stadio che le imprese hanno sopportato per poi giungere all’internazionalizzazione finanziaria.
È prevalsa l’iniziativa individuale e noi riteniamo invece che i progetti di internazionalizzazione siano a supporto e a regia locale. Bisogna mantenere il governo della conoscenza di queste imprese presso di noi. La sfida è questa; presentare progetti di internazionalizzazione a supporto e regia locale, atti a supportare una o più fasi del processo di internazionalizzazione in atto. Non ci spaventa lo sviluppo dell’impresa fuori dalla UE, fuori da Alessandria, prendiamo atto che i problemi di know–how si risolvono in loco. Si tratta di fare la regia di queste uscite dall’ambito comunale, perché non bisogna avere paura di una internazionalizzazione di impresa che si basa su un percorso che parte da un’area locale e poi si irradia in un altro, ma avendo aperto mercati assai più vasti all’impresa.
Seconda questione: un’impresa, per raggiungere l’internazionalizzazione, deve avere dei prodotti che la reggono. Ed ecco qui come si tiene legata l’impresa alla nostra comunità; garantendo la ricerca applicata. La garanzia della ricerca applicata è nodale. Qui occorre chiarirci sui termini. La Comunità Europea distingue chiaramente, sotto il profilo giuridico, tra i termini di ricerca applicata e sviluppo precompetitivo. La prima è l’insieme di attività cognitive e sperimentali atte ad acquisire nuove conoscenze di prodotto o processi produttivi, oppure sensibili miglioramenti di processi, o prodotti già esistenti. Il secondo è l’insieme di attività sperimentali, anche di tipo prototipale, e fino alla fase di pre-industrializzazione, (processi di spin-off e start–up), atte a concretizzare le conoscenze acquisite su nuovi prodotti o processi, oppure a concretizzarli in sensibili miglioramenti su prodotti o processi già esistenti. Facciamo chiarezza. A livello locale, lo sviluppo precompetitivo non si è fatto.
La ricerca applicata si è fatta quasi esclusivamente per migliorie di prodotto, ma non per acquisire, per esempio, nuove conoscenze su di esso. Faccio un esempio: ho già un prodotto e cerco di migliorarlo, ma non mi occupo di cercarne uno nuovo. Allora dobbiamo anche sfruttare questa seconda sfera possibile, la ricerca di nuovi prodotti.
C’è un dato di riferimento: il 90% delle nostre imprese sono piccole e medie imprese che al loro interno hanno la possibilità di stornare risorse per lo sviluppo precompetitivo oppure per la ricerca applicata. Queste imprese però, finiscono poi per non farlo, per fare decedere il proprio prodotto sul mercato, per acquisire brevetti, per potere reggere il business di impresa e perdere così l’internazionalizzazione. Noi però abbiamo il Politecnico e l’Avogadro.
È importante sostenere lo sviluppo precompetitivo, cioè la fase di concretizzazione del processo, sia per le PMI, sia per le grandi imprese. Partendo da questi due assunti, e considerando la presenza di un sistema universitario locale dotato di buoni laboratori e indiscusse competenze, occorre integrare la domanda con l’offerta di tecnologia. Da un lato la ricerca applicata deve essere integrata dalla logica di sviluppo precompetitivo, portando il sistema universitario più in linea con le reali esigenze produttive del sistema, ed occorre riconoscere che lo sviluppo non è solo e sempre di tipo tecnologico ed ingegneristico, ma è sempre accompagnato, nei sistemi aziendali moderni, da esigenze più o meno collaterali anche di tipo economico, o giuridico, o finanziario.
La nostra idea di una cittadella della conoscenza, uno strumento societario che va verso la ricerca applicata e lo sviluppo precompetitivo, incentrata non sulla didattica, si ricordi bene, ma sulla ricerca, andava in questa direzione. Il Comune, l’Università e la Fondazione Cassa di Risparmio sono disposti ad investire su di essa. Se non lo si facesse, il prezzo da pagare è quello di una realtà che impoverirà la capacità competitiva sul mercato internazionale dei nostri beni e processi.
La partita è aperta, ma una cosa è certa; non investire in strutture di incontro tra ricerca universitaria e produzione industriale, anche per il tramite di strumenti di ingegneria finanziaria dedicati alla ricerca, magari con il supporto di nostri partner quali la Fondazione Cassa di Risparmio di Alessandria, a lungo termine, significa impoverire drammaticamente le leve di competitività delle nostre imprese. Questo è uno strumento che il Comune mette a disposizione.
La terza linea strategica è il capitale umano. Noi non facciamo imprese e società senza cervelli che le governino e che capiscano qual è l’orientamento di politica economica di un Comune.
Governare le imprese significa avere processi di formazione ad alto livello che consentano alle nostre aziende di avere manager, gestori capaci di comprendere che l’impresa non si sviluppa solo sul core-business maturo, perché andrebbero verso una caduta progressiva della loro capacità di sviluppare utili. Dovrebbe ben più impegnarsi per rialimentarlo attraverso la ricerca applicata e lo sviluppo precompetitivo.
Il sistema di formazione professionale deve mettere a disposizione figure che ci possono fare evitare la disoccupazione frizionale. Ma è un altro il livello. Il sistema universitario, nel momento in cui c’è una cittadella della conoscenza, deve organizzare coerentemente corsi per la formazione e la selezione di manager che sappiano cogliere gli indirizzi forniti dalla cittadella stessa.
Noi non abbiamo mai fatto grandissima polemica sulla questione del Politecnico e abbiamo cercato di comprendere prima ancora che parlare, evitando di farci triturare nel meccanismo delle politiche governative in materia universitaria, né di fare coloro che manifestavano in maniera organica contro o a favore del Governo. A noi interessava capire qual era l’orientamento del Politecnico e di sfruttarlo al meglio per questo tipo di percorso. Ci interessava sostanzialmente poco della didattica (ma non ce ne siamo per niente disinteressati, anche in termini di risorse economiche impiegate), ma molto di più se il Politecnico, insieme alla ricerca applicata e allo sviluppo precompetitivo, avrebbe messo a disposizione percorsi di studio per individuare manager, che fossero poi coerenti con i coordinati percorsi di ricerca. Pensavamo ad una didattica a posteriori della ricerca, non parallela alla ricerca, come normalmente si fa.
Non ci sono solamente i manager da formare, ma anche quelli già formati che hanno bisogno di aggiornare le proprie competenze. In questo disegno, penso che l’Università sia determinante.
Le associazioni di categoria imprenditoriale confermano la crescente complessità del governare le aziende attuali rispetto a quella di soltanto alcuni decenni or sono. A questo si aggiunga che, il nostro comparto industriale è prevalentemente basato sul family business, su problemi di direzione, management, gestione di controllo, e passaggio generazionale. Pensare ad una scuola di alta formazione, o comunque strumenti organizzati e strutturati di supporto al management in collaborazione tra i sistemi locali, non appare un’idea improvvida di risultati, anche considerando la fortunata localizzazione che ben si presta ad accogliere istanze di area anche vasta. Quello che va pensato è di offrire al sistema manageriale locale tutte le competenze necessarie alle sfide del domani, senza costringere sistematicamente le nostre imprese ad investire in capitale umano e conoscenza sulle cittè metropolitane, più o meno vicine al nostro territorio. Questo però va fatto non con la logica del top down, ma del bottom up, partendo da una reale, rigorosa e concreta analisi dei fabbisogni delle imprese, per offrire risposte e non per collocare prodotti più o meno appetibili.
Da ultimo, ma non per importanza, i progetti non si fanno senza i soldi. Ci vogliono delle risorse. Non a caso parlando della cittadella della conoscenza ho citato partner disposti ad investire. Per questo, la quarta linea strategica scelta dal tavolo di lavoro produttivo del piano strategico di Alessandria, è la linea del capitale finanziario. Mai come in questi mesi tale argomento è di attualità. Le banche ed il sistema politico si affannano a negare la realtà, e cioè che taluni gruppi bancari, prevalentemente di grande dimensione, hanno dato direttive, più o meno note, di chiedere il rientro di posizioni e di restringere, o addirittura rallentare, ed in taluni casi, negare gli affidamenti. Questo con buona pace di chi nega che sia possibile il rischio di un credit crunch sul sistema produttivo.
Quanto queste previsioni siano realistiche, lo verificheremo comunque tra pochi mesi, quando saranno disponibili sul sistema bancario i bilanci delle imprese riferiti all’anno 2009, per i quali si prevedono, almeno in alcuni settori, dati da brivido.
L’introduzione di regole sulla concessione di capitale di debito di tipo anglosassone, come quelle cosiddette di Basilea 2, in un sistema latino come il nostro, caratterizzato da una cultura imprenditoriale lontana da quel mondo, da un sistema prevalente di PMI, da una logica prevalentemente contabile e per competenza, da una non conoscenza delle logiche di cassa, ma soprattutto da una pressione fiscale insostenibile ed incentivante per politiche di free ridership, non mancherà di lasciare morti sul campo, con buona pace di chi parla di darwinismo economico. Ma non è il solo problema. Manca completamente una cultura di equity, cioè di capitale di rischio, ma anche di correlati strumenti, adatti a comparti industriali di non grande dimensione, e per politiche di start up (avvio), expansion (sviluppo) e replacement (ristrutturazione) delle nostre imprese.
I casi di interventi significativi nel capitale di rischio nella nostra realtà locale si contano negli anni sulle punte delle dita di una mano. Da ultimo, diventeranno importanti gli strumenti ibridi di finanziamento (quali prestiti partecipativi, debiti mezzanini, ecc.), raramente offerti alle nostre imprese, e gli strumenti di collateral finanziario (quali ad esempio l’intero sistema delle garanzie collaterali al credito dei Confidi).
Guardando a dieci anni, qual è la nostra logica di osservazione dei fenomeni? Non possiamo continuare ad affermare che piccolo è bello, perché piccolo, in una logica internazionale, rischia di essere insufficiente. Fare crescere le imprese, significa ammettere che bisogna, prima o poi, uscire dalla logica del controllo, che è tipica del nostro sistema industriale, e non di quello di altri paesi.
La situazione è particolarmente complicata perché neanche gli enti locali non navigano nell’oro. Quest’anno abbiamo cercato di rispondere alla crisi non deflettendo rispetto ai livelli di investimento che noi avevamo nei confronti della comunità. Potevamo tranquillamente ritirarci, anche parzialmente, e avremmo vissuto meglio questi giorni di inizio anno. Abbiamo preferito rischiare, perché sapevamo che l’immissione di capitale da parte del Comune all’interno della comunità, era elemento essenziale per un’accelerazione della ripresa. Immaginatevi se il Comune non avesse più investito in lavori pubblici, per esempio. Purtroppo siamo capitati in una congiuntura estremamente negativa. Se voi pensate che la cassa depositi e prestiti, che è un po’ la banca dei comuni, ha conferito i mutui che a noi servivano per il 2009, il 16 dicembre 2009, capite che non abbiamo potuto utilizzare almeno una parte di quelle risorse sul 2009. La riutilizzeremo, ma abbiamo concorso a spostatre i tempi di risoluzione della crisi di 4/5 mesi in avanti.
Ci sono problemi di cash–flow enormi, dovuti, in parte, al ritiro progressivo delle banche dal mercato finanziario stesso.
Infatti le regole di Basilea chiedono un corretto equilibrio economico come relazione positiva tra costo medio ponderato del capitale investito (il WACC, weighted average cost of capital) e il ritorno del capitale investito (il ROI, return on investment), non sono un corretto equilibrio patrimoniale (tra fonti durevoli e non durevoli di finanziamento) rispetto agli immobilizzi ed il capitale circolante (working captal), ma anche finanziario, cioè tra debito bancario e capitale proprio, non si attagliano molto al nostro sistema contabile che è molto più per competenza che per cassa.
Questo ultimo rapporto, universalmente definito levarage (leva finanziaria), non può crescere indefinitamente, ma deve stare in un rapporto di ragionevolezza che si vuole in uno a due per la grande impresa, ed in uno a tre per la PMI. In prospettiva, fenomeni di sottocapitalizzazione del nostro comparto industriale non consentono di prevedere serenamente la crescita delle nostre imprese, soprattutto se, come abbiamo detto, vogliamo aiutarle a competere sui mercati internazionali. Servono progetti di ingegneria finanziaria concertati a livello locale tra attori industriali e finanziari, ed appositamente dedicati alle esigenze, mutevoli per settore, per comparto, e per fase del ciclo di vita, nonché per esigenze di working capital (capitale di giro) o fixed assets (capitale investito fisso).

In conclusione, queste sono le quatto linee strategiche che il tavolo si è dato: abbiamo motivato le ragioni della scelta strategica, indicando anche quattro possibili idee progetto, quali un progetto integrato su almeno quattro fasi di internalizzazione, una cittadella della conoscenza per la ricerca applicata e lo sviluppo precompetitivo, una scuola multidisciplinare di management per l’impresa, un centro di studio e progettazione di strumenti finanziari a sostegno delle politiche industriali locali.
Dal punto di vista del capitale mancano molte strutture. Per esempio il Comune di Alessandria aveva iscritto nel suo programma di mandato la costruzione di una finanziaria per lo sviluppo, cioè voleva immettersi nel mercato del credito, senza i lacci delle banche di Basilea 2, ma intermediando rispetto ad essi e trovando un ulteriore elemento di convergenza tra imprese e comunità. Non siamo riusciti a realizzare la finanziaria di sviluppo per l’indisponibilità del sistema del credito a consentire che si immettesse un nuovo soggetto al’interno di quel mercato, perché allargare il mercato del credito ad intermediari come gli enti locali, sarebbe stato deleterio.
La mancanza della cultura del capitale del rischio per le nostre imprese, è abbastanza determinante. I casi significativi di intervento su capitali di rischio nella nostra economia sono pochi. Noi lo abbiamo fatto per l’Amiu che abbiamo de capitalizzato per necessità finanziarie congiunturali e poi ricapitalizzato velocemente, altrimenti non avrebbe avuto la possibilità di rimanere sul mercato, né di sostentare tutti gli investimenti necessari, ad esempio, al cambiamento del sistema di raccolta dei rifiuti.
Vi sono, probabilmente, dei sistemi di finanziamento migliori di quelli fin qui condotti, che devono essere imbracciati, come i prestiti partecipativi, per esempio, raramente offerti alle nostre imprese o strumenti collateral finanziari.
Noi guardiamo ad una città del futuro, non ad una economia dell’oggi.
Io ritengo che se continuano questi fenomeni di sottocapitalizzazione del nostro comparto industriale, non possiamo prevedere con serenità la crescita delle nostre imprese, soprattutto se l’ottica è quella di collocarle nella sfera della internazionalizzazione.
Servono progetti di ingegneria finanziaria e qui noi abbiamo messo a disposizione già qualcosa. Stiamo pensando alla realizzazione della borsa delle idee, ma con una grande difficoltà, quella di essere capiti sia dal sistema creditizio, sia da quello delle imprese. Un bando di finanziamento di progetti innovativi lanciato insieme alla Cassa di Risparmio, che ha avuto il riconoscimento di strumento finanziario più innovativo d’Italia, ha visto due, tre imprese parteciparvi. Pensavamo, vista anche la dotazione di qualche decina di milioni di euro, che invece generasse più interesse.
In questo range di attività, dunque, mi pare ci possa stare molta convergenza fra il Comune, le imprese, l’Università, cioè fra coloro che sono, in effetti, i protagonisti del nostro sviluppo.
Attendiamo ora con vivo interesse di ascoltare quali siano le proposte, che mi auguro concrete e circostanziate, dei soci della nostra associazione sul tavolo di lavoro della produzione.
Il Comune di Alessandria, in qualità di socio proponente l’iniziativa, chiede quindi di illustrare le proposte e le idee progetto che i vari attori del tavolo porteranno nelle prossime settimane ai lavori della commissione competente.

 

 

Il sindaco di Alessandria
Piercarlo Fabbio

Alessandria, sala lauree Università Avogadro – 29 gennaio 2009






 

 

 

 

 

Piercarlo Fabbio Sindaco di Alessandria