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Piercarlo Fabbio Sindaco di Alessandria

   
   

   

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02/03/2006

I protagonisti della nostra storia: Carlo Donat Cattin

Ettore Bonalberti, suo stretto collaboratore, ricorda il grande politico cristiano democratico a quindici anni dalla morte. Ritratto rigoroso di uno straordinario leader

   

I protagonisti della nostra storia: Carlo Donat Cattin

Era un grande ed irripetibile partito la Democrazia Cristiana. Con l’introduzione del sistema proporzionale per l’elezione del consiglio nazionale e il quasi contemporaneo utilizzo del manuale Cencelli per le nomine interne e di governo nacquero e si consolidarono, nel bene e nel male, quelle che sono state la quintessenza stessa della DC: le correnti.
Sorte come strumenti di aggregazione politico ideale all’epoca della nascita della corrente dorotea, quella in cui “ i pallidi salmodianti della Domus Mariae” con Moro, Segni, Colombo e Rumor decretarono la fine dell’era postdegasperiana di Fanfani alla segreteria del Partito, dopo la rottura di Iniziativa Democratica, noi che eravamo entrati agli inizi degli anni ’60 nel partito, di provenienza cattolica, cislina e/o aclista, ci ritrovammo naturaliter con la sinistra sociale della Democrazia Cristiana. Per intenderci la corrente di “Forze Nuove” nata alla vigilia del congresso di Roma del 1964, quello del mio primo incontro con Carlo Donat Cattin.
Fu quel suo impetuoso discorso contro Rumor e la sua relazione “vecchia e stantia”, due aggettivi ripetuti tra i fischi e gli applausi di una platea infiammata, che mi fece maturare l’idea che quella sarebbe stata la mia casa. E fu Forze Nuove per sempre.
In un partito che vivrà nei decenni successivi le tossine di aggregazioni sempre meno tenute insieme da ragioni ideali e sempre di più dalle mire del potere, noi fummo tra coloro che restarono fedeli all’idea di un partito diverso; un partito in cui i lavoratori di ispirazione cristiana potessero, da un lato, restare coerenti ai loro ideali e in grado di collegare i loro interessi e valori a quelli del ceto medio produttivo (questa saldatura resterà per sempre uno dei grandi meriti storici della DC), e, dall’altro, porsi in alternativa al classismo della sinistra egemonizzata dal PCI.
Leader incontrastato per quasi trent’anni di questo gruppo, dopo l’esperienza congiunta sindacale e politica con Rapelli e Pastore, fu Carlo Donat Cattin, di cui fummo discepoli e amici per tutta la vita.
Nella buona e nella cattiva sorte, sempre pronti a seguirlo nelle battaglie più coraggiose che il nostro leader seppe condurre con permanente lucidità e lungimiranza, grazie ad un metodo di lavoro politico che resterà nella storia della DC, quale esempio, quasi solitario, di una partecipazione democratica e di elaborazione teorica e di organizzazione politica di grande spessore.
Fummo allevati alla scuola dell’impegno e della coerenza ai valori della dottrina sociale della Chiesa, alle ragioni dei lavoratori e dei ceti popolari, per i quali l’interclassismo dinamico cui ci ispiravamo, costituiva la base indiscutibile della nostra militanza politica.
E fummo, soprattutto, un gruppo unito e tra i più agguerriti del partito. Quelli che, con una felice immagine del caro e compianto Vito Napoli, furono descritti come i “vietcong della DC” costretti a combattere con le cannucce a pelo d’acqua, nel vasto e limaccioso fiume di natura deltizia come la DC, progressivamente dominata dai moderati, nella stagione migliore e, poi, da quei “capaci, capacissimi, capaci di tutto”, che caratterizzarono la stagione più impervia e difficile, negli anni ’80 a dominanza demitiana dentro e fuori il Partito.
Dalle ragioni del primo centro-sinistra, a quelle della solitaria lotta con Aldo Moro nel tempo del doroteismo trionfante, sino alla battaglia contro l’ingresso del PCI al governo (straordinario il suo intervento all’assemblea dei parlamentari DC in cui, solo alla fine, obtorto collo, come sempre fedele alle indicazioni strategiche di Aldo Moro, dovette soccombere alla prevalente realistica decisione dei gruppi) e a quella successiva che lo accompagnerà alla morte, con la grande intuizione del “preambolo” e della strenua difesa dell’alleanza tra la DC e i partiti di ispirazione laica e socialista.
Quell’alleanza, sconfitta la quale, con il determinante concorso di Mani Pulite, siamo precipitati in questa stagione perigliosa della cosiddetta “Seconda Repubblica”.
Tracciare dopo quindici anni dalla scomparsa di Carlo il bilancio di un’esperienza che ha coinciso quasi perfettamente con quella stessa della nostra vita politica attiva, significa ripercorrere le innumerevoli occasioni di incontri, di dibattiti, di riunioni notturne romane e nelle nostre diverse realtà regionali e provinciali. Rivivere le ansie e le preoccupazioni di decine e decine di congressi provinciali, regionali e nazionali. Un’infinità di tempo sottratto alla famiglia, agli impegni di studio e professionali, per dedicarsi pressoché totalmente e gratuitamente alla testimonianza di una militanza e di una fedeltà mai venute meno.
Da Carlo abbiamo imparato la lezione di una politica ancorata agli ideali, fatta di approfondimento teorico, esercitato nelle lunghe discussioni e nel confronto anche duro e permanente tra di noi, e di esercizio pratico, alle prese di un partito in cui si doveva fare i conti con le tessere, con le preferenze, con le inevitabili tentazioni non sempre commendevoli del potere.
Noi che abbiamo avuto la fortuna, se non proprio il merito considerato che mai esercitammo autentici ruoli di potere, di restare sempre al di qua dei limiti corretti dell’esercizio onesto della politica, possiamo a pieno titolo testimoniare con quanta straordinaria coerenza Donat Cattin, anche su questo fronte, seppe rappresentare per molti di noi un modello di vita e di positivo riferimento.
Non estraneo né insensibile al richiamo del potere, senza del quale la politica si riduce a mera testimonianza, Donat Cattin seppe sempre far prevalere le ragioni ideali. Lo fece quando, in più occasioni, gli aiuti finanziari che, certo, non mancarono alla nostra come alle altre ben più attrezzate correnti, per sua insindacabile decisione andavano a sostenere la voce democratica della “Gazzetta del Popolo “ di Torino piuttosto che le nostre talora petulanti richieste di aiuto per il tesseramento, nel quale rincorrere i dorotei et similia era per noi una partita persa in partenza, come “ giocare a poker con l’Aga Kahn”….
O quando, ed era il suo cruccio e il suo impegno costante, si trattava di tenere in piedi riviste che hanno fatto la storia politica e culturale della DC, da “Sette Giorni” a “Terza Fase”. Per non dimenticare i nostri appuntamenti annuali di Saint Vincent, uno dei pochi momenti di approfondimento culturale e politico aperto a tutte le idee dentro e fuori della DC. Furono questi gli strumenti e le occasioni in cui si formò e visse la nostra generazione politica. Quella dei giovani del 1964 che rimasero con Carlo sino alla fine.
Con lui soffrimmo il dramma di un padre colpito negli affetti più cari, prima, dalle vicende brigatiste di Marco, le cui colpe gli furono fatte così pesantemente pagare sul piano politico e, poi, direttamente al suo cuore, dopo l’incidente mortale dello stesso figlio, viatico inevitabile di quella morte in ospedale a Montecarlo che ci ha lasciati drammaticamente soli e senza più guida.
Nel mio studio conservo una solo foto ingrandita che guardo ogni giorno con commozione nel momento in cui mi accosto al computer: Carlo ha il capo chino, davanti a me e a Sandro Fontana, mentre mi sta dando le ultime istruzioni per l’imminente intervento che, come sempre, era obbligatorio fare ad ogni consiglio nazionale.
Tante volte, quella perentoria e indiscutibile sollecitazione, a noi sembrava se non superflua, almeno inopportuna, ma il vecchio Capo insisteva ed a lui non si poteva dire di no: “ vai e intervieni”, anche perché, se ne chiedevi la ragione la risposta, tra il serio e il faceto, era disarmante: “ la truppa bisogna tenerla sempre allenata”…

 

Ettore Bonalberti

 

 

 

 

 

Piercarlo Fabbio Sindaco di Alessandria