Dimensione del carattere 

Domenica 19 gennaio 2025

Piercarlo Fabbio Sindaco di Alessandria

   
   

   

Ricerca avanzata

10/11/2005

Lamon e le intuizioni di Miglio

Il sito ospita una firma prestigiosa, quella di Ettore Bonalberti, che, dopo il voto del Comune veneto che ha deciso di annettersi al Trentino, ripropone l'attualità di un disegno federalista del Repubblica.

   

Lamon e le intuizioni di Miglio

Lamon è un Comune di 3800 abitanti , in provincia di Belluno al confine tra Veneto e Trentino. Domenica 30 e Lunedì 31 Ottobre, 2377 elettori su 2558 votanti, ossia il 93% degli aventi diritto, hanno scelto con un referendum di passare dalla Regione Veneto al Trentino.
E così il Comune di Lamon è stato il primo Comune italiano in cui ha avuto successo un referendum per la modifica dei confini regionali.
Alcuni mesi prima ci aveva tentato anche il comune di S. Michele al Tagliamento in provincia di Venezia, al confine con le province friulane di Udine e Pordenone, ma lì non si era raggiunto il quorum del 51% dei votanti e , quindi, il voto referendario fallito.
Insomma, in pochi mesi, il Veneto ha vissuto la manifestazione palese di un malessere che, rimasto sottotraccia per molti anni, è drammaticamente esploso, avviando un processo di inesorabile progressivo assorbimento dei comuni di frontiera da parte delle due regioni a statuto speciale con cui il Veneto confina.
Un fenomeno che, assente per i primi quindici anni dall’avvenuta istituzione della regioni a statuto ordinario (1970), ha dato i suoi primi segnali verso la metà degli anni ‘80, in corrispondenza del consolidamento di quel fenomeno di accentuato autonomismo localistico rappresentato dalla Liga veneta, oggi Lega della Padania.
Fu proprio alla fine degli anni ‘80 che, in un intervento al consiglio nazionale della DC (Novembre 1989) denunciai il rischio di esplosione di ciò che bolliva in pentola, conseguente alla diversa incompatibile situazione tra le tre diverse regioni confinanti. E nel 1990 condussi per conto del quotidiano della DC, “ Il Popolo”, un’inchiesta sui criteri di raccolta e di distribuzione dei fondi da parte dello Stato tra Regioni a statuto ordinario e regioni a statuto speciale, evidenziando con i dati del ministero degli interni quanto fosse profonda la sperequazione a danno dei cittadini del Veneto rispetto ai concittadini trentini, altoatesini e friulani, con cui i veneti vivevano e si confrontavano a pochi metri di distanza gli uni dagli altri.
Tema ripreso qualche anno dopo dall’allora ministro per gli affari regionali, On. Raffaele Costa, che, dati alla mano, evidenziò l’insopportabilità di quella sperequazione.
In quegli anni non solo il riparto era palesemente iniquo sul fronte delle risorse distribuite, ma vi era l’aggravante di un’altrettanto forte sperequazione sul piano delle entrate fiscali procapite raccolte nelle stesse regioni (e naturalmente, in questo caso, a condizioni rovesciate!!). Era chiaro già da allora che riforma fiscale e riforma degli enti locali erano e sono due facce della stessa medaglia. Ebbi varie occasioni per sottolineare il fatto per cui: o si tornava ad associare allo Stato le realtà locali, già in sede di accertamento e di compartecipazione degli enti locali sulla quota di tributi raccolti, o la voragine del debito pubblico non sarebbe mai stata colmata.
Mi sono venute alla mente queste riflessioni nei giorni scorsi, quando il Presidente della giunta regionale del Veneto, Giancarlo Galan, dopo il risultato del referendum a Lamon, consapevole del valore dirompente di quel voto, ha annunciato la volontà di assumere iniziative politiche ed istituzionali per chiedere il passaggio di tutto il Veneto alla regione Trentino Alto Adige.
Scelta provocatoria, ma non troppo, quanto invece coraggiosa e realistica nella constatazione di un malessere che non può più essere soffocato, prova ne sia che molti altri comuni del bellunese (tra cui la perla delle Dolomiti, Cortina d’Ampezzo) e dell’altopiano di Asiago, si stanno organizzando per celebrare anch’essi il loro referendum per il passaggio al Trentino, mentre da anni ci si sta battendo per l’istituzione della nuova provincia del Veneto orientale e di quella autonoma di Belluno.
Tentativo, nel primo caso, tendente a realizzare il riconoscimento di uno status particolare ai comuni compresi tra la provincia di Venezia e quelle di Udine e Pordenone; nel secondo, la ricerca di un’autonomia che avvicini la realtà bellunese a quella trentina. Entrambe sono prospettive oramai bruciate dal risultato di Lamon e dalla conseguente scelta di Galan, la cui giunta ha incaricato tre esperti giuridici ( i proff. Mario Bertolissi, Lucio Pegoraro e Laura Antonini) per dare pratica attuazione alle procedure previste dall’art.132 della Costituzione, il quale stabilisce la possibilità (con legge costituzionale) di fusioni tra regioni diverse.

Le ragioni del malessere veneto

Non si tratta di motivazioni storiche, etniche o culturali quelle che stanno alla base delle scelte degli elettori di Lamon e che costituiscono le ragioni del malessere veneto.
Un malessere che è vissuto da quasi tutte le regioni a statuto ordinario confinanti con regioni a statuto speciale, ossia tutte quelle del Nord confinanti con Valle d’Aosta, Friuli e Trentino Alto Adige e quelle del Sud che, coperte sin qui dai trasferimenti sussidiari dello Stato, vivono una condizione di netta inferiorità rispetto alle regioni speciali della Sicilia e della Sardegna.
Malessere che, sinora vissuto sottotraccia, non mancherà di esplodere non appena si diffonderà la consapevolezza nei cittadini di quanto accade sul piano delle entrate e dei trasferimenti pro capite tra le diverse regioni italiane.
Sono, infatti, queste insopportabili sperequazioni di natura economica le ragioni fondamentali che spingono i Comuni ai confini tra le regioni a statuto ordinario e quelle speciali ad optare per il passaggio del confine. E un confine che progressivamente si spostasse non potrebbe che riprodurre un metro sempre più in là il processo, sino alla perfetta identificazione dello status “speciale” a quello che è sin qui rimasto “ordinario”.
Per comprendere la consistenza del fenomeno basterà ricordare le cifre elaborate dall’Istituto di studi sui sistemi regionali federali e sulle autonomie “Massimo Severo Giannini” (ISSIRFA) del CNR, cifre che si possono riassumere in pochi ma indiscutibili dati: ogni anno un cittadino trentino si ritrova 4.700 euro in più rispetto ad un cittadino veneto. Cifra che se in famiglia si è in due, o se si hanno figli, si moltiplica per n volte quanti sono i componenti della famiglia stessa.
Questo è quanto un cittadino trentino riceve in più annualmente rispetto ad un cittadino veneto, entrambi costituzionalmente “uguali” di fronte alla legge.
Se consideriamo il fronte delle tasse (dati 2003), su 1000 euro di tasse pagate mentre nelle Regioni a statuto ordinario rimane in cassa il 20%, in quelle speciali la percentuale varia: 60% resta in cassa al Friuli, 70% in Sardegna, il 90% in Val d’Aosta e Trentino-Alto Adige e il 100% in Sicilia.
Utilizzando queste percentuali e si calcola il totale delle entrate, risulta che in provincia di Trento, con 5.514.181.000 euro per abitante, considerati i 477.000 abitanti di quella Provincia, la possibilità di spesa regionale pro capite risulta di 11.539 euro; a Bolzano, anch’essa provincia autonoma con pieni poteri, con 4.529.700.000 euro e 465.000 abitanti, la capacità di spesa pro capite risulta di 9.950 euro, in Friuli Venezia Giulia gli 8.203.788.000 euro divisi per 1 milione e 188 mila abitanti permettono una spesa pro capite di 5.902 euro. Nel Veneto, invece, con entrate pari a 10.429.290.292 euro e 4 milioni 540 mila abitanti, si possono spendere solo 2.409 euro a testa. Hanno un bello starnazzare i presidenti delle province autonome di Trento, Delai e di Bolzano, Durnwalder, piccati dalla provocazione di Galan; resta il fatto che un cittadino trentino ottiene dalla sua regione o provincia 5 volte di più di quello che ottiene un cittadino veneto!!
Ricorderò che Jean Baptiste Colbert (1619-1683) era famoso, oltre che per la politica economica interventista dello Stato, per quella sua filosofia in materia fiscale secondo cui:” l’arte della tassazione consiste nello spennare l’oca in modo da ottenere il massimo delle penne con il minimo di proteste”. Evidentemente le oche venete non sono più disponibili a farsi spennare e soprattutto a vedere le cugine oche trentine, altoatesine e friulane ricoperte di splendide piume rispetto alla condizione da subnormali in cui loro,invece, sono costrette a vivere.
È comprensibilissimo, allora, lo sfogo di Galan a sostegno della sua richiesta di annessione del Veneto al Trentino, quando sostiene: “pongo una domanda alla quale dovranno dare risposta il Parlamento italiano (l’annessione comporta, ai sensi dell’art.132 della Costituzione una decisione legislativa di rango costituzionale n.d.r.) e a quello europeo. Questi privilegi, a 60 anni dalla fine della guerra, sono giusti e leciti? Se sì, allora li voglio anch’io. Se no, li devono togliere. Così verranno al pettine i nodi.”
E i nodi sono molti e di forte caratura e dalle conseguenze politiche ed istituzionali imprevedibili.

Uno sguardo alle cifre e l’intuizione federalista del prof Miglio

Se consideriamo la differenza procapite tra le entrate totali consolidate e le spese totali consolidate 2002 (valore in euro) questa è la situazione:

Piemonte                       426
Valle d’Aosta           -5.033
Lombardia                 2.025
Liguria                      -1.818
Trentino A.A.           -2.806
Veneto                       1.943
Friuli V.Giulia         -2.414
Emilia R.                   1.925
Toscana                        530
Umbria                     -1.605
Marche                         112
Lazio                        -1.146
Abruzzo                    - 916
Molise                      -2.344
Campania                 -1.818
Puglia                       -1.746
Basilicata                 -3.129
Calabria                   -3.572
Sicilia                      -2.676
Sardegna                  -3.288
(fonte Conti Pubblici Territoriali Ministero dell’economia)

Da queste cifre appare chiaro che solo sei regioni (Piemonte, Lombardia, Veneto, Toscana, Emilia R. e Marche) hanno un saldo positivo procapite tra quel che la regione versa sotto forma di tasse allo Stato centrale e quel che riceve, mentre è negativo in tutti gli altri casi. Una situazione del genere non può onestamente continuare senza creare i fenomeni che il voto di Lamon ha concretamente evidenziato: la progressiva volontà di abbandonare le regioni a statuto ordinario verso le più remuneranti regioni a statuto speciale. E allora: o si garantisce anche alle regioni a statuto ordinario le stesse condizioni previste per le regioni a statuto speciale o si tolgono a queste ultime dette “specificità”. Nel primo caso, nell’attuale configurazione istituzionale regionale, con molta probabilità il sistema Italia non reggerebbe, nel secondo, anche le oche delle regioni a statuto speciale finirebbero con lo starnazzare fortissimamente e le conclamate virtù dei loro governatori sarebbero miseramente messe a nudo.
Il prof. Gianfranco Miglio, uno dei più noti ed attenti studiosi del federalismo ed ispiratore sommo della vulgata leghista, in un bellissimo pamphlet (“L’asino di Buridano”, Ed. Lativa) ripubblicato nel 2001 dalla Regione Lombardia, a seguito della prima elezione diretta di Roberto Formigoni alla presidenza della giunta regionale lombarda, affrontò in maniera approfondita il tema del federalismo.
Consapevole del rifiuto del sistema politico tradizionale che proprio in quegli anni in cui Miglio redasse il suo saggio vedeva il crollo della Prima Repubblica, il professore comasco evidenziava che tale rifiuto, “dovunque si manifesti, ha preso un tratto comune: è la richiesta diffusissima dell’adozione alternativa di un ordinamento “federale”. Quella del “federalismo”, continuava Miglio, “è un’istanza estremamente generica: chi ne parla, o addirittura lo invoca, non ha quasi sempre l’idea più lontana di ciò che implica questo modello costituzionale. Sono “federalisti” tutti coloro i quali rifiutano il sistema centralizzato dei poteri, praticato in questo paese, o anche soltanto avversano le procedure autorizzative che la burocrazia ricava, e oppone ai cittadini, da una visione “unitaria” della gestione della cosa pubblica”.
E venendo alla sua proposta enunciata nel capitolo 2, “Un vero ordinamento federale”, Miglio così scriveva:
“… le cinque Regioni a Statuto speciale, a parte la loro naturale inclinazione a difendere il proprio diritto alla vita, e quindi la loro irriducibilità, posseggono già (garantite nello Statuto) risorse finanziarie che le rendono indipendenti dalle lusinghe dell’autorità federale. Queste cinque Regioni possono quindi essere integrate nel sistema (intendeva il nuovo sistema federale costituzionale da lui auspicato n.d.r.), senza contraddire la sua principale esigenza di omogeneità…”
Infatti per il prof Miglio: “il punto di forza di ogni vero sistema “federale”, sta nella stabile (e garantita) ripartizione delle competenze di Governo, fra una pluralità di comunità politiche territoriali, da un parte, e un’autorità federale dall’altra.”
La sua proposta per la nuova costituzione federale dell’Italia consisteva nel “raggruppare le Regioni “a statuto ordinario” in più larghe “Comunità regionali”, corrispondenti alle grandi articolazioni, in materia di costumi e di stile di vita, in cui il paese si presenta diviso, da sempre, e agli occhi di tutti”. Per Miglio doveva nascere la “Comunità regionale” del Mezzogiorno d’Italia, accanto a cui prevedere altre “Comunità”, praticamente equivalenti: una per l’Italia centrale (raccolta attorno alle positive esperienze della Toscana) ed una per l’Italia settentrionale unificata dalla Valle del Po. Una variante, sosteneva Miglio, “potrebbe essere costituita dalla distinzione, nel Nord, fra una “Comunità regionale del nord-Ovest” e una “Comunità regionale del nord-Est”, per consentire ai veneti di esplorare la possibilità di “aggancio” alla Mitteleuropea e alla Valle del Danubio”.
Intuizioni profetiche quelle del prof. Miglio che, dopo il voto di Lamon e le decisioni annunciate del Veneto, sembrano assumere il carattere di forte realismo politico.
Uno Stato che continuasse a raccogliere tributi, dazi e gabelle in maniera differenziata e distorta, ed ancor più in maniera sperequata distribuire le risorse tra i suoi cittadini, non potrebbe resistere all’assalto che, oggi si esprime nei voti referendari dei comuni, e in un domani, non troppo lontano, potrebbe determinare il suo progressivo sgretolamento.
È tempo che, anziché continuare nella dissennata politica di rincorsa ai finti autonomismi con la creazione di sempre nuove province, si mettessero nell’agenda politica le proposte del grande studioso scomparso, e non si indugiasse oltre per attuare il federalismo fiscale che, per autosostenersi, non potrà che fondarsi su una diversa articolazione delle attuali regioni.

 

Ettore Bonalberti

 

 

 

 

 

Piercarlo Fabbio Sindaco di Alessandria