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Piercarlo Fabbio Sindaco di Alessandria

   
   

   

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12/09/2011

La Cittadella e la guerra... in tempo di pace

Appunti per un intervento del sindaco al convegno sulle Operazioni di Pace nel XXI secolo. Sottolineato l'importante ruolo di Alessandria nel teatro militare nazionale ed internazionale durante l'Ottocento e il primo Novecento.

   

La Cittadella e la guerra... in tempo di pace

Cittadella di Alessandria 9 settembre 2011

Alle 15 del 14 giugno 1800 nei campi di Marengo, che la leggenda vuole rossi, come un'infinita distesa di papaveri, l'Armata di Riserva Francese, agli ordini del console Napoleone Bonaparte, appariva nettamente sconfitta. Il generale austriaco Melas, per un senso del risparmio dovuto al fatto che molte perdite umane erano già state subite, non schierò la Cavalleria e diede l'ordine del rastrellamento. Poi, stanco e leggermente ferito ad un braccio, era rientrato in Cittadella, senza neppure avvertire della sua partenza dal campo il generale Kaim, il più anziano dei feldmarescialli.

Poi sappiamo come andò a finire la battaglia: il ritorno di Desaix, l'azione di Kellermann e la vittoria dei francesi, che così riconquistano la Cittadella praticamente un anno dopo averla persa.

Perché sono partito da qui? Per iniziare a dimostrare una tesi sul luogo in cui siamo, sul rapporto tra città ed esercito, tra Cittadella e storia unitaria dello Stato italiano.
Se scorriamo la nostra storia, infatti, la vediamo incastonata tra episodi di interesse ben diverso da quello meramente localistico. Almeno nazionale, quando non internazionale.

E se Napoleone a Marengo (perchè ingaggia battaglia lì, forse per conquistare la più imponente e munita fortezza del Piemonte? Per costituirsi una testa di ponte verso la conquista del lombardo veneto, per riprendere le fila della Repubblica cisalpina e cispadana?) è il fulcro delle idee che poi alimenteranno il Risorgimento, ma scateneranno anche il brigantaggio e daranno la stura alle imprese di Giuseppe Mayno della Spinetta, come non pensare ad almeno altri accadimenti che segnano il tragitto della nostra tesi: il trattato di Utrecht, il passaggio del territorio alessandrino dalla Lombardia al Piemonte; la nascita (illegale!) nel 1728 di una fortezza magniloquente e munitissima, addirittura tempo dopo dotata di ulteriori 100 cannoni per munifica colletta pubblica lanciata da Norberto Rosa; i moti del 1821, quando per la prima volta sventola il tricolore sul territorio dell'Italia nascente; i moti del 1833; la spedizione di Crimea; l'importante ruolo della Cittadella durante la seconda guerra d'indipendenza che consentì all'esercito francese di utilizzarla come base di raduno; la reclusione di Garibaldi; le imprese eroiche del 37esimo Reggimento Fanteria della Divisione Ravenna, pressoché annientato nei bacini del Don e del Donez e decorato poi con Medaglia d'oro al Valor Militare. E poi, mi si consenta un vezzo, tutto alessandrino: l'ultima carica della cavalleria italiana, eseguita stendardo in testa dal reggimento Cavalleggeri di Alessandria, il 17 ottobre 1942, a Poloj in Croazia, che di fatto conclude un modo di combattere che aveva contraddistinto almeno tre secoli di strategia bellica.
Pare poco per definire questo luogo come il padre di tante trasformazioni? Certamente è abbastanza per certificare l'importanza di Alessandria come piazzaforte militare e l'abitudine della città a vivere grandi fatti, episodi nodali della storia italiana.
Di Marengo si è detto, dei moti del 1821 e dei fatti di contesto che li circoscrissero basti dire che la Cittadella venne presa dai rivoltosi nella notte tra il 9 e il 10 marzo. Tra loro, oltre ai Federati, carbonari, massoni, patrioti, costituzionalisti, repubblicani spiccavano i Dragoni del Re, i soldati della Brigata Genova, ufficiali come Guglielmo Ansaldi ai cui ordini viene issato il primo vessillo tricolore. Si era mosso l'orologio del Risorgimento.
E dodici anni dopo ecco gli indomiti idealisti rivoluzionari, questa volta ispirati da Giuseppe Mazzini, ritentare la sorte. I moti del 1833, in realtà non scoppiarono mai. Vennero pensati, progettati, ispirati, ma la polizia sabauda fu più attenta degli stessi rivoluzionari e smascherò sul nascere la cospirazione. Andrea Vochieri fu condannato a morte ignominiosa, perché durante una perquisizione nella propria casa era stata trovata la ricopiatura con propria calligrafia di un numero della "Giovane Italia", ma soprattutto perché il causidico alessandrino aveva cercato di minare dalle fondamenta la compattezza dell'esercito di Carlo Alberto, il cui potere si reggeva proprio sul legame stretto con i propri militari. Non a caso sarà un tribunale militare, presieduto da Gabriele Galateri di Genola, a condannarlo. Con procedura da codice militare, nonostante Vochieri fosse un civile. Venne condannato per alto tradimento come fosse un militare. Anche questo piccolo particolare che la storia ci tramanda non fa che rinforzare la mia tesi.
E passano ventidue anni, ma il rapporto tra esercito e città non scema. È il 1855. Cavour si appresta a cambiare gli assetti dell'Europa che derivavano dal Congresso di Vienna. La spedizione in Crimea ha un valore militare ridotto, ma un valore politico enorme. E un esercito di quindicimila uomini, al comando di Alfonso La Marmora, si riunisce ad Alessandria il 14 aprile, riceve le bandiere avanti ad una folla immensa, alla presenza di Vittorio Emanuele II e Camillo Benso conte di Cavour.
La spedizione di Crimea cambia il mondo al punto che il piccolo Regno di Sardegna è già considerato, in potenza, l'Italia unita. È una sorta di preconizzazione politica che anticipa il verdetto della storia.
Piazza strana, questa di Alessandria, che non rispetta neppure gli eroi, che pure osanna quando il 13 marzo 1867 Giuseppe Garibaldi arringa la folla cittadina in occasione delle elezioni politiche. Qualche mese dopo, in settembre, il nizzardo, parlamentare in carica, sarebbe ritornato ad Alessandria, la città del Presidente del Consiglio, Urbano Rattazzi, dopo aver subito l'arresto a Sinalunga per aver progettato un attacco allo Stato Pontificio. Alla Cittadella occupò tre stanzoni, rimase tre notti e due giorni, ma anche nella fortezza considerata un luogo ove "la sicurezza e la più severa sorveglianza vi sono più possibili che altrove", quando si diffuse la notizia della detenzione, crebbe pericolosamente il fermento tra i militari che manifestavano aperte simpatie verso il prigioniero. Poi Garibaldi fu portato a Caprera, ove non resistette molto. Tornò sul continente, intraprese la campagna di Mentana e fu nuovamente arrestato, ma non più portato in Cittadella.

Si può balzare al Novecento, ma la regola non muta. La grande guerra, la battaglia di Bainsizza, la decorazione al Valor Militare con medaglia d'argento, la dedica di una intera area della fortezza a quegli episodi, il palazzo del Governatore al colonnello Giletti, la palazzina latostante alla battaglia sul Carso. Poi la seconda guerra mondiale con il 37esimo Reggimento Fanteria della Divisione Ravenna che parte per la Russia nel 1942. I superstiti rientrarono in Cittadella nel maggio 1943. 1250 uomini non fecero più ritorno.
Era l'ultimo retaggio di guerre che avevano contraddistinto secoli di tensioni e anticipava un lungo periodo di pace, ove l'esercito mutava la sua mission al punto da separarsi da quella fortezza che ancora oggi riporta sui suoi laterizi incisi i nomi, le invocazioni, gli anni, le speranze di tanti giovani il cui tempo era stato raccolto da queste mura, che oggi raccolgono le voci di una dimensione di pace che il nostro esercito sta portano nel mondo.

 

Piercarlo Fabbio
Sindaco di Alessandria


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